Nusaybin.
Da un lato del muro la Siria, dall’altro la Turchia. I palazzi e le strade del lato turco appartengono Nusaybin.
Da cinque mesi tornata a una finta normalità, reduce da un anno di una guerra senza senso, l’ennesima, iniziata nel settembre del 2016. Tragedia che si somma alla tragedia, quella del popolo curdo, che continuamente chiede libertà e perpetuamente ne viene privato, e di guerre ne ha viste tante, non è mica la prima questa. Questa è solo l’ultima. E chissà, ne verranno altre.
Quello che resta, intanto, è qualche palazzo distrutto nella zona di casa nostra, non tanti. La porta dell’ascensore del terzo piano del palazzo in cui viviamo sfondata, con del nero che richiama fiamme… sappiamo che è a causa della guerra ma non sappiamo cosa sia successo. Resta una donna come tante che ci ferma e piangendo e indicando macerie verso il lato siriano ci dice che lì c’era casa sua e ora non può andarci più, non si capisce se la casa era dove ora sono le macerie o oltre il muro che prima non c’era, ma il concetto non cambia… Stupide linee di frontiera con carri armati e trincee e stupidi poliziotti e stupidi militari che appena vedono facce poco turche ci fermano e ci fanno domande per più di mezz’ora, e che alla fine forse stupidi non sono, ma sono solo pedine e vittime essi stessi di un sistema che non hanno scelto loro… tant’è che quando aggiungono Serap, la responsabile del container, su Instagram per verificare se lei e gli altri membri del team, Veysi e Adnan, avessero detto la verità, vedono foto e video dei bambini di Sirkhane a Mardin e di Nusaybin e di Istasyon e di tutte le loro attività, non esitano a contattarla per chiederle scusa palesando, in fondo, un minimo d’umanità dietro quel fucile minaccioso e quell’espressione severa che solo un paio di volte s’era lasciata sfuggire, durante il controllo dei passaporti, un sorriso forzato. Umanità? O tattica? In fondo così adesso possono controllarla meglio, la responsabile del Container, dopo averne invaso la privacy chiedendole scusa.
Ma sono pochi quelli ancora umani. Se ci sono. E quelli scomodi poi tanto poco ci vuole a toglierli di mezzo. I più, comunque, sono stati disumanizzati. Altrimenti non trascinerebbero i bambini curdi per i capelli, come ci racconta Genki, un ragazzo che frequenta Sirkhane, a Mardin, per esercitarsi alla batteria. O non ci direbbero che lì non c’è bisogno di noi, che anche ad Ankara e a Istanbul i bambini hanno bisogno, e anche fuori dalla Turchia. Lasciano intendere che siamo scomodi, che non gli piace che regaliamo sorrisi unione e coesione ai bambini curdi. Le autorità turche, i curdi, li vogliono deboli e divisi.
Resta una linea che chiamano confine, con-fine, è un finire insieme, una doppia fine, la fine di due realtà, la fine di due libertà, la libertà di andare e la libertà di tornare, la libertà di fuggire o di andare ad aiutare a fuggire. La libertà di calpestare qualsiasi terreno di questo mondo perché ci appartiene, o meglio perché non appartiene a nessuno. La libertà di muoversi e spostarsi. La libertà di vedere i propri cari. Come Berlino est e Berlino ovest.
In realtà non è chiaro, sulla carta geografica sembrano due città diverse ma molto vicine, quella turca e quella siriana. Ma ci dicono in un inglese scalcagnato che è la stessa città, e allora forse è così, magari il nome in zona siriana le è stato cambiato dopo. O forse è solo per far capire il senso di separazione e privazione che fanno il paragone con Berlino. Fatto sta che, stessa città o città diverse, le famiglie sono divise, le amicizie sono divise, chi viveva da un lato e lavorava dall’altro non può farlo più, e il limite c’è ed è invalicabile. Come a Berlino.
Resta una linea disegnata da un continuo di pezzi di muro di cemento e reti e filo spinato lungo mille chilometri e largo duecento metri, di soli tre mesi di vita e ancora in costruzione, e torrette di avvistamento e carri armati e posti di blocco, al di là della quale la gente continua a morire e al di qua della quale la gente vuole vivere normalmente e dimenticare anche solo per pochi istanti quel che è stato, nonostante le macerie, nonostante i carri armati, i controlli continui, e vuole parlare ma non vuole parlare, come ci dice Pinar, la coordinatrice di Her Yerde Sanat: vuole parlare perché ha voglia e bisogno di parlare e raccontarsi, ma non vuole parlare, perché della guerra vuole dimenticarsene, non ci vuole pensare più, anche se continua ad averla dietro l’angolo, vorrebbe spiegarla ma non vuole riviverla. Allora il consiglio di Pinar è di dargli a parlare perché ne hanno bisogno, ma di non fare domande, se vorranno l’argomento lo metteranno in mezzo loro, come quella donna incontrata per strada; tu invece proponi altro, parla di vita, non parlare di morte. Parla della vita di tutti i giorni. Come con Serdal, custode del teatro “Mitanni Kültür Merkezi”, che ci ha presi a cuore a me e Gigi e ci chiede se stiamo insieme, e ci tiene a dirci che la signora che abbiamo aiutato a pulire i resti della colazione è sua moglie e il bambino che si aggira timidamente là intorno è suo figlio, e ne hanno altri tre di figli.
La colazione l’abbiamo condivisa domenica mattina con i ragazzi di una compagnia teatrale che durante la giornata avrebbero messo in scena uno spettacolo per tutti i bambini del container e del parco Ataturk in cui si trovano il container e il teatro e di tutte le scuole invitate. È stata una bella situazione, sia la colazione (tè -çai, ça in curdo-, pane, olive, pomodori, cetrioli e formaggio, come da tradizione), sia lo spettacolo che, oltre ad essere simpatico seppur in turco e quindi per noi in parte incomprensibile, ci ha anche fatto tirare un sospiro di sollievo tenendo i bambini impegnati tutto il giorno!!! Sono bellissimi affettuosissimi ed entusiasti, ma estremamente difficili. E per quanta bellezza ti diano, tanta è anche l’energia che ti tolgono. Proporzionale a tutta l’energia della loro infanzia che gli hanno fatto ingolfare dentro, e quando esce è come se un qualcosa ad altissima pressione si stappasse all’improvviso ed esplode tutta insieme ed è incontrollabile per loro e per noi. Non sono più abituati ad essere bambini. Non sono abituati a giocare.
Il container è una sorta di diffusore di gioia itinerante, che restituisce infanzia e spensieratezza a occhi troppo adulti per i corpi a cui appartengono, e contemporaneamente regala la crescita mancata, quella saltata, quella giusta fatta di rispetto e condivisione, mancata a causa di un buco nero che li ha teletrasportati direttamente nel mondo della morte e della distruzione insensata, delle armi e delle bombe, nel mondo del lavoro e dei fumatori, delle risse e dei coltelli, dei poliziotti che ti trascinano per i capelli anche se sei solo e piccolo e urli disperato. Ma sei curdo.
Nel container è stata attrezzata una biblioteca e una piccola scuola di disegno e pittura. Ci sono poi una dozzina di trampoli di varie altezze, attrezzatura varia per giocoleria (palline, clave e piattini cinesi), diciotto cajòn ancora da costruire, due melodiche e due flauti. È come una scuola: si impara e si gioca tutti insieme, turchi curdi e siriani, contro la discriminazione. Quaranta bambini lo frequenteranno regolarmente come una scuola. Nei weekend verranno organizzati giochi di gruppo, proiezioni di film, spettacoli teatrali e concerti. Resterà a Nusaybin in tutto tre mesi, quando andrà via, se i bambini vorranno, l’associazione fitterà una casa come hanno già fatto a Istasyon dopo sei mesi di permanenza dello stesso container, con giovani trainers che ne diventeranno responsabili. In questo modo il lavoro potrà andare avanti senza container. Pinar qui a Nusaybin è andata al Ministero dell’istruzione per proporre il progetto, e nelle scuole è stata fatta la proposta ai ragazzi. Chi tra questi vorrà sarà seguito da noi tutti i giorni per un paio d’ore e piano piano sarà pronto per portare avanti il compito.
Si tratta di un lento e lungo lavoro, con i trainers ma principalmente con i bambini, che va a scavare a fondo e a lavorare sulle radici del problema, sulle fondamenta mancate. I risultati si vedono dopo anni, come a Sirkhane, la scuola di circo musica e arte di Mardin, i cui ragazzi, quelli che la frequentano da più tempo, sono completamente cambiati rispetto a quando arrivarono. Questo è quanto ci dice Pinar. Sono molto più rispettosi e meno violenti. E più felici. E sono una squadra. Non più uno contro l’altro.
Fuori dal container e dal teatro e dal parco, tutt’intorno, resta una città in cui se sei turco non puoi fare foto alle macerie, perché t’arrestano, figurati se sei italiano. Emel, altro membro di Her Yerde Sanat e anche fotografa, ha passato un giorno dentro per aver fatto foto a un palazzo caduto a causa della guerra. L’hanno beccata con le mani nel sacco e tàc! Perciò ci sconsiglia di fare foto. Ci sconsiglia anche di camminarci in quelle zone. Non sono troppe per fortuna. Almeno tra casa e il container.
Domenica dovevamo andare a prendere un caffè e troviamo tutto bloccato, la strada principale e tutte le traverse, macchine e camionette blindate di polizia e militari che non stanno nell’ordine delle decine a contarle… Perché? Perché è crollato un palazzo importante e devono evitare che la gente faccia foto… Resta una città così, un po’ blindata e un po’ tesa. Un po’ per dire. Un po’ molto.
Resta una città in cui tu, italiano che non parla turco, è meglio se non giri troppo da solo perché se non hai interpreti che mettono la buona parola per te, la polizia potrebbe non credere ai tuoi occhi e ai tuoi sorrisi e c’è il rischio che ti arrestino, anche solo per una notte. Resta una città in cui ti leggono subito in faccia che non sei del posto e in quattro giorni siamo stati fermati due volte dalla polizia per controlli di mezz’ora e più pieni di domande. Ora siamo “ricercati” all’incontrario. Pinar ha chiamato le autorità per far diffondere a tutta la polizia di Nusaybin le foto dei nostri passaporti in modo che non ci fermino più e non ci facciano più perdere tempo prezioso. Quando camminiamo con Veysi se li vediamo cambiamo direzione. Non ci va di stargli a dar retta. Non dovrebbero fermarci più ma non si sa mai. Meglio evitare e farsi i fatti propri.
Resta una città col coprifuoco. Italiano spagnolo francese siriano turco curdo non importa. Intorno alle 23:00-00:00 non c’è più nessuno per strada, non si esce più, sennò ti arrestano.
E resta una città in cui i curdi che ti hanno insegnato qualche parola della loro lingua ti chiedono per piacere di non parlare curdo ai poliziotti. Se i curdi gli parlano in curdo li costringono a parlare in turco, fanno finta di non capirlo il curdo. E se noi gli dicessimo qualcosa in curdo, quasi sicuramente vorrebbero sapere chi ce lo sta insegnando. E Mussì è preoccupato per questo e allora noi gli diciamo di non preoccuparsi: curdo? Cos’è il curdo??? E Mussì ha la zia dall’altra parte del muro e non la può vedere più. È molto arrabbiato, come tutti. Chissà quanto tempo dovranno aspettare. E guai a provare a passare, inutile dirlo. Ti ammazzano. È un confine. È un confine vero.
Nusaybin oggi fa centomila abitanti circa, forse qualcosa in più. Hamits, sempre di Her Yerde Sanat, mi dice che la guerra è iniziata a settembre duemilasedici ed è finita solo cinque mesi fa. Il muro c’è da tre mesi. Veysi mi fa il conto degli abitanti e mi dice che sono molti meno di prima. Nell’ultimo anno buona parte della popolazione è andata via, molti stanno andando via e altri se ne andranno. La linea ferroviaria è chiusa più o meno da quando è iniziata la guerra. Circa il cinquanta per cento della città è andato distrutto. La migliore amica di Evin, traduttrice del team del container, è morta in una delle esplosioni. È lontano da dove siamo noi, per ora non se ne parla di andarci. È quello che resta e che per ora noi non vediamo. Ma forse è più corretto dire che è quello che non resta.
E poi restano i bambini. Piccoli uomini cresciuti troppo presto. Con una voglia immensa di giocare ma una fetta intera d’infanzia completamente saltata, strappata, catapultati in un mondo troppo pieno di cattiveria e bruttezza rispetto a quello che dovrebbero vivere alla loro età. E allora li vedi girare guardinghi con rabbia e coltelli e sguardi vissuti di chi sa il fatto suo, di chi sa badare a se stesso, perché può rimanere solo da un momento all’altro se solo non è già. Sguardi di chi la violenza la vive quotidianamente, nella società e in famiglia. Piccoli branchi di bambini ognuno col proprio capo branco, pronti però a dimenticarsi di tutto ciò che li circonda e che li ha cambiati appena gli si propone un gioco nuovo, che li riporta alla loro età, al loro essere bambini. Almeno per un momento.
Piccoli uomini che fanno quotidianamente la loro piccola guerra in miniatura. E allora può capitare che i curdi sfottano i turchi dicendogli che lanciano le bombe e viceversa, o può capitare di vedere una mano alla gola con tanto di testa spiaccicata contro un muro solo per accaparrarti un trampolo che in quel momento non spetta a te. Continui tafferugli scoppiati per un niente e piccole lotte per far valere la propria giustizia. Scene su scene di piccoli scontri che si intervallano ai momenti di gioco felice e spensierato che gli proponiamo noi grazie al connubio delle due strutture presenti nel parchetto, il container di Her Yerde Sanat e il teatro e centro culturale con cui l’associazione sta collaborando.
Lassù dai trampoli le bruttezze del mondo forse le vedono più lontane. In equilibrio precario su due lunghe e pesanti gambe di legno, i tarta bacak, forse, riescono a dimenticare per qualche ora l’equilibrio precario delle loro labili vite, tanto preziose, in quanto vite di bambini che avrebbero solo da crescere e da dare bellezza al mondo, quanto frivole, per quello stesso mondo che della loro bellezza non ne vuole sapere niente.
Giocando con le palline, per un po’ vedono volare colori e abilità, e non aerei da guerra bombe e il grigio e il nero della polvere da sparo e delle armi.
Giocando con i piattini cinesi, per un po’, scoprono che con un dito e con la buona volontà forse si può riuscire davvero a tenere in equilibrio qualcosa che pare voler crollare e collassare su se stessa da un momento all’altro.
O forse gli stiamo solo dando l’ennesima illusione, raccontandogli favole e facendogli disegnare un mondo che in realtà non esiste. Hanno fatto tanto, pianto tanto, sofferto tanto per accettarlo così com’è questo mondo e per andare oltre, da piccoli grandi uomini, arriviamo noi e gli raccontiamo di nuovo le favole.
Ho sempre pensato che le favole aiutino a vivere, piccoli e grandi, che sono i grandi che dovrebbero riimparare a tornare bambini, che bisogna ogni giorno lottare per trasformare uno spicchio di mondo in favola e colori, ma qui a volte mi viene il dubbio. È lecito.
Però poi vedi i loro sorrisi e allora pensi che va bene così. Sognare fa sempre bene.
E senti i racconti di Pinar, che ti dice di quanto siano cambiati negli anni i ragazzi di Mardin da quando frequentano Sirkhane, di come hanno imparato il rispetto, l’attesa, ad aspettare il loro turno, a non fare a pugni per ogni minima cosa, ad ascoltare… E allora forse si, serve davvero. È solo un lavoro lento, lungo e meticoloso, che va a scavare a fondo e ad aggiustare i pilastri delle fondamenta della struttura umana.
E se anche Ahmed, che adesso ha diciassette anni, dopo tanti anni di circo e col sogno di aprirne uno suo per dare felicità ai bambini e per aiutare la sua famiglia, ora forse il circo dovrà abbandonarlo perché il padre vuole che vada a lavorare, gli rimane comunque un grande tesoro dentro. E non si è illuso per sei anni. Ma per sei anni ha costruito sé stesso e ha acquisito gioia e abilità, e se sarà bravo a non perderle per la via, un giorno magari, chissà, gli torneranno utili davvero. Forse potrà costruire la sua libertà. E altrimenti, almeno, gli sono stati regalati sei anni di felicità.